venerdì 19 ottobre 2018

Sinossi o quarta di copertina?

Molto spesso, quando un autore invia il proprio manoscritto a una casa editrice per farlo valutare e magari anche pubblicare, deve allegare una sinossi. Alcuni sbuffano seccati perché non hanno voglia di spremersi le meningi per scrivere anche la sinossi. Ma come? Dopo tutta la fatica che ho fatto a scrivere il mio capolavoro devo anche scrivere la sinossi? 
Ebbene sì, è importante farlo. Soprattutto, però, è importante farlo bene. 
Partiamo dal principio, cos’è esattamente una sinossi? 
Il dizionario la definisce così: sinòssi s. f. [dal lat. tardo synopsis, gr. σύνοψις «sguardo d’insieme» (comp. di σύν «con, insieme» e ὄψις «vista»)]. – Compendio, esposizione sintetica e schematica di una materia, di una disciplina, di una scienza, di un periodo storico o letterario, ecc., fatta in modo che i dati si possano facilmente e rapidamente trovare o confrontare tra loro [...]
In pratica è un riassunto analitico, ovvero preciso e dettagliato, della storia raccontata dall’autore. All’interno non ci devono essere fronzoli o frasi a effetto nel tentativo di impressionare o incuriosire chi la legge, ma la semplice descrizione dei fatti e dei personaggi, e soprattutto deve raccontare il finale. L’editore che giudicherà il vostro romanzo ha bisogno di conoscere la struttura della trama, l’intreccio e il suo scioglimento, per capire se è valido oppure no, se è adatto alla sua linea editoriale o meno. Attraverso la sinossi, se fatta in modo corretto, l’editore capisce quali siano le capacità di scrittura dell’autore ed è invogliato a leggere anche il manoscritto. 
Attenzione però, non è necessario descrivere tutti i fatti e i personaggi del vostro romanzo, ma solo quelli principali e in modo riassuntivo, abbastanza da far capire lo svolgersi delle vicende e non troppo da annoiare. Nessun editore leggerebbe una sinossi di venti pagine! L’ideale sarebbe condensarla in una paginetta.
Viceversa, una quarta di copertina, che è destinata ai lettori che devono decide se acquistare o no il libro, non deve svelare nulla del finale, ma solo incuriosire, introdurre personaggi ed eventi creando suspense e attesa attraverso frasi ammiccanti che promettono grandi emozioni tra il detto e non detto. Una buona sinossi è il miglior biglietto da visita che possiate presentare, senza, pochi editori si prenderanno la briga di leggere un intero manoscritto.

venerdì 22 giugno 2018

Se dici horror dici... vampiro!

La creatura da romanzo horror più conosciuta è senza ombra di dubbio il vampiro e vale la pena di dedicarle un intero post, perché il vampiro non è un semplice mostro succhiasangue; incarna le più oscure paure dell’umanità, che è proprio ciò che il genere horror è chiamato a fare.
Uno dei primissimi vampiri della letteratura è Ruthven, di cui scrisse John William Polidori nel racconto “Il vampiro” nel 1819. Polidori era il medico personale di Lord Byron e una delle personalità presenti in quella famosa vacanza durante la quale Mary Shelley scrisse “Frankestein”.
Ruthven ha già quelle qualità che poi saranno proprie di Dracula, cioè una spiccata tendenza alla seduzione che serve ad attirare le sue vittime.
Il passo successivo è “Carmilla”, di Sheridan Le Fanu, 1872, in cui il vampiro diventa una donna bellisisma e seducente.
“Dracula” di Bram Stoker è un romanzo del 1897. La struttura narrativa di “Dracula” è particolarisisma, perché si tratta di un romanzo epistolare. Inoltre, è un romanzo accuratamente documentato, dato che Stoker fece tantissime ricerche sia storiografiche, sia antropologiche sia ambientali.
La figura del vampiro è innestata, come si sa, su quella di Vlad III di Valacchia, feroce principe della Valacchia vissuto nel XV° secolo, ma in realtà si pensa che Broker si sia ispirato a un fatto di presunto vampirismo avvenuto nell’Essex qualche anno prima.
Al pari di Ruthven e di Carmilla, Dracula è un potente seduttore. Egli, nascosto in una cassa, si reca in Inghilterra per trovare nuove vittime, e qui vampirizza prima la nobildonna Lucy Westerna e poi la sua migliore amica Mina Murray.
Il vampiro rappresenta il fascino del male al quale è difficile resistere.
Nei tempi moderni, la figura è stata ripresa e modificata fino ad approdare all’urban fantasy e al paranormal romance, a riprova che la qualità di seduttore è quella che più permea questo indiscusso protagonista dell’horror.
Tra le saghe più famose, ricordiamo senza ombra di dubbio i romanzi di Ann Rice, tra cui “Intervista col vampiro”, del 1976.

venerdì 15 giugno 2018

La sostanza del conflitto

Ci possono essere storie belle o brutte, con personaggi interessanti o stereotipati, si può raccontare bene o raccontare male, ma qual è la sostanza di una storia? Cos’è che la rende tangibile ai nostri occhi ma soprattutto al nostro cuore? Che cosa ci permette di identificarci con il protagonista tanto da emozionarci davanti alle sue vicende? Alcuni risponderebbero a questa domanda dicendo: ovvio, il linguaggio, la capacità dell’autore di trasmettere le emozioni attraverso le parole. Ebbene, il linguaggio è lo strumento, ma non la sostanza della storia. Quello che fa scattare l’interesse del lettore nei confronti di un romanzo è l’empatia con il protagonista. Al di là che si tratti di un personaggio eroico o di un cattivo per eccellenza, quello che irretisce il lettore è la possibilità di provare le stesse cose che prova lui, condividerle e poter dire: Sì, anche io mi sento così. Ovviamente non mi riferisco alle vicende o ai fatti narrati in quanto tali, ma alle emozioni e ai sentimenti che appartengono in modo universale al genere umano e che vengono vissuti e proposti attraverso situazioni potenzialmente reali, nelle quali il protagonista è chiamato a compiere delle scelte. 
Partiamo dall’inizio. Il protagonista, come tutti i personaggi, è solitamente un essere umano, o comunque un essere umanizzato, e come tale possiede una propria visione del sé, l’ego; una visione dei personaggi a lui più vicini, con cui ha relazioni personali; e una visione dell’ambiente esterno, il mondo e la società. Quando un essere umano compie delle azioni o delle scelte, lo fa in base alla visione soggettiva che ha di questi tre livelli della realtà, con lo scopo di ottenere ciò che desidera o che gli serve, con la minor fatica possibile. Se il protagonista deve prendere un aereo ma ha il terrore di volare, magari perché sopravvissuto a un disastro aereo, dovrà confrontarsi con le proprie paure, affronterà un conflitto di I° livello, un conflitto interiore. Se salendo su quell’aereo il protagonista sa che perderà per sempre la donna che ama, si troverà davanti a un conflitto personale, di II° livello. Terza ipotesi, se il protagonista scegliendo di salire su quell’aereo sfiderà tutte le convenzioni sociali che invece gli imporrebbero di restare a terra, allora affronterà un conflitto extrapersonale, di III° livello. Le conseguenze delle azioni compiute dal protagonista in ognuno di questi conflitti, non sempre rispecchieranno le sue aspettative, e questo genererà altri conflitti, in un crescendo narrativo in cui il protagonista dovrà mostrare al lettore quanto forte sia la sua motivazione, la sua capacità di correre dei rischi e mettersi in gioco per conseguire lo scopo prefissatosi. 
Insomma, il conflitto nasce dal divario tra le aspettative del protagonista rispetto all’azione compiuta e l’effettivo risultato conseguito, che dipende non solo dal protagonista ma dalla realtà a lui circostante. Un personaggio che si lamenta perché non riesce a conquistare il cuore della sua amata, a sconfiggere il cattivo che lo tormenta, ma poi non fa nulla, non si mette in gioco, non corre dei rischi per ottenere ciò che vuole è solo un noioso, irritante ipocrita. Allo stesso modo, se l’obiettivo su cui si accanisce il protagonista è poco significativo e non è così importante da cambiare o influenzare completamente la storia e il destino dell’eroe, allora il lettore non riuscirà a farsi coinvolgere, a sentire empatia nei suoi confronti. 
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: Come fare per mostrare tutto questo al lettore? Come creare un personaggio empatico con cui identificarsi e creare un feeling? La risposta è più semplice di quanto non si pensi. È sufficiente immedesimarsi nel personaggio e porsi una semplice domanda: Se fossi io nei panni del mio personaggio, in quella situazione, cosa farei? Se vivessi la storia che voglio raccontare, che cosa accadrebbe alla mia vita se riuscissi o fallissi nel mio intento?
Uno scrittore non inventa niente, uno scrittore è un fedele reporter del genere umano, il suo compito è raccontare partendo da dentro verso fuori. Se non prova in prima persona le emozioni dei suoi personaggi, come può sperare che le provino i suoi lettori? L’unica fonte attendibile della capacità di emozionare il lettore sei proprio tu!

domenica 10 giugno 2018

Prima dell’horror c’era il romanzo gotico

Il precursore del moderno romanzo horror è il romanzo gotico. 
Si tratta di un genere sviluppatosi a partire dalla seconda metà del settecento, sopratutto a opera di scrittori anglosassoni. La caratteristica è quella di unire elementi romantici a elementi dell’orrore. L’ambientazione di solito è quella di lande spettrali, castelli diroccati e abbazie decadenti, che poi è il tipico paesaggio inglese e scozzese del XIX° secolo. 
Il primo romanzo gotico è “Il castello di Otranto”, di Horace Walpole, risalente al 1765. 
 La storia è quella della famiglia di Manfredi, principe di Otranto non per diritto bensì per casualità. Il suo primogenito, il malaticcio Corrado, dovrebbe sposarsi con Isabella, erede legittima del principato, ma un gigantesco elmo simile a quello della statua del leggendario principe Alfonso cala dal cielo e lo schiaccia. Manfredi decide allora di sposare egli stesso Isabella, anche se per fare ciò deve ripudiare sua moglie Ippolita. L'elemento gotico si limita alla presenza spettrale del principe Alfonso, che si palesa come una gigantesca armatura che terrorizza i servi del castello. Per il resto il romanzo si concentra sulla virtù delle donne della famiglia e sulla cattiveria di Manfredi, finendo per essere un racconto moraleggiante che risente tantissimo della sua epoca. 
Seguono a questo romanzo “Il monaco” del 1769, di Mathew J. Lewis; “L’italiano” di Ann Radclife, 1797; “Melmoth. L’uomo errante” di Charles Maturin, prozio di Oscar Wilde, datato 1820. 
Essendo romanzi della fine del ‘700, hanno la tipica struttura a cornice dell’epoca e, invero, non sono capolavori immortali della letteratura. 
L’unico che spicca un pochettino è “Il monaco”, che suscitò un tale scalpore all'epoca da costringere l'autore a pubblicarne una versione censurata appena due anni dopo. Ambientato in Spagna, narra della discesa nel peccato del padre Cappuccino Ambrosio, uomo incline alle passioni più violente e sfrenate che si ammanta della virtù della religione solo per vanità. Ci penserà la bella Matilda, la strega, a spingerlo lungo una via fatta di peccati sempre più efferati, fino a un terribile delitto incestuoso. L'aspetto gotico sta nelle cripte dei conventi e nei lugubri castelli tedeschi infestati da fantasmi. 
La vera svolta nel romanzo gotico arriva con “Frankestein” di Mary Godwin Shelley, 1818, che l’autrice scrisse durante una vacanza assieme al marito, il poeta Shelley, e Lord Byron e Polidori, autore del racconto “Il vampiro”. 
Il giovane Victor Frankstein (ricordiamo che il nome si riferisce al creatore, mentre la creatura viene semplicemente definita "mostro"), attraverso lo studio della filosofia naturale, cioé la chimica, riesce a dare la vita a una creatura che, tuttavia, è così brutta e deforme che Victor se ne pente immediatamente e la caccia. Il mostro, come un bambino, si ritrova a vagare per la natura e a imparare man mano tutto ciò che c'è da sapere. È quando gli umani cominceranno a scacciarlo a causa della sua fisionomia spaventevole che egli diventerà un assassino, ma non malvagio, semplicemente frustrato e deluso per la cattiveria subita, in primis dal suo creatore. 
“Frankstein” è intriso di romanticismo molto più dei suoi predecessori. Analizza la follia tutta umana di volersi sostituire a Dio nella creazione (infatti il sottotitolo è “Moderno Prometeo”, dall’idea del furto della scintilla divina) ed è anche considerato il primo romanzo fantascientifico, dato che teorizza la possibilità di dare la vita attraverso uno studio scientifico.

venerdì 1 giugno 2018

“C’era una volta...” il Narratore

Quando si inizia a strutturare un romanzo e a creare un progetto narrativo con tanto di scaletta e profilo dei personaggi (vero che lo fate?), spesso non si pensa al Narratore. Questa presenza data per scontata, è fondamentale: non ci può essere storia senza l’io narrante. Tutto ciò che non è dialogo o pensiero dei personaggi è voce narrante. Ci avevate mai pensato? Chi è che descrive un’azione, un luogo, un personaggio? Il Narratore, a cui l’Autore ha affidato il compito di raccontare la sua storia. La scelta del tipo di Narratore è fondamentale e implica un uso ben preciso del punto di vista con cui viene raccontata la storia. La forma più comune è quella del Narratore Extradiegetico o Eterodiegetico, ovvero Esterno e onnisciente. È quel narratore che non è coinvolto nelle vicende e che conosce tutta la storia, sa anche quello che non sanno i personaggi e può raccontare flashback, o anticipare azioni e fatti futuri. Solitamente racconta in terza persona. Questa scelta narrativa è sempre stata molto usata, già fin dal 1800, ecco alcuni esempi: “Madame Bovary” di Gustave Flaubert, 1856; “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne, 1850; “I Malvoglia” di Giovanni Verga, 1881 ; “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello, 1904; “La casa degli spiriti” di Isabel Allende, 1982; e molti, moltissimi altri.
Il Narratore onnisciente, però, non è solo esterno alla storia, ma può essere anche interno e coincidere con il protagonista o un altro personaggio, come per esempio nel romanzo “Amabili resti” di Alice Sebold, in cui la voce narrante onnisciente è la protagonista: una ragazzina assassinata il cui spirito assiste a tutte le vicende successive alla sua morte.
Il Narratore Autodiegetico o Omodiegetico è il narratore interno e protagonista della storia; è il personaggio principale (o il secondario) che racconta cosa gli accade. In questo, però, la narrazione degli eventi è limitata alla presenza del protagonista in scena. Usare questo tipo di Narratore vincola l’autore a raccontare solo ed esclusivamente da un unico punto di vista. Non è facile impostare un romanzo in prima persona senza cadere nella tentazione di inserire un Narratore onnisciente quando diventa difficile spiegare fatti e situazioni accaduti in assenza del protagonista. Un bellissimo esempio di Narratore in prima persona in stile epistolare è “Dracula” di Bram Stoker del 1897. Un esempio molto più recente è il romanzo di Chiara Gamberale del 2010 “Le luci nelle case degli altri” raccontato dalla protagonista, Mandorla, una ragazzina rimasta orfana e accolta dai condòmini del palazzo dove abita insieme alla madre.
Una variante davvero interessante è quella del Narratore interno multiplo, ovvero, quando la storia è raccontata a “più mani”. È molto usata quando si vuole dare voce ai diversi sentimenti di tutti personaggi che prendono parte a una storia, si possono usare più narratori che raccontano la stessa vicenda da diversi punti di vista. Non è facile raccogliere le fila di un unico discorso con tanti protagonisti narranti, quindi prima di scegliere questo tipo di struttura è meglio creare un progetto narrativo molto accurato.
Un esempio meraviglioso di questa tecnica è “Frankenstein” di Mary Shelly, 1823, che inizia con la narrazione in prima persona dello scienziato, il dottor Frankenstein, e prosegue alternandosi con la narrazione in prima persona della Creatura, alla fine i due filoni narrativi si riuniranno. Molto più recente è il romanzo del 2003 “La custode di mia sorella” di Jodi Picoult, dove le toccanti vicende vengono raccontate attraverso il punto di vista di tutti i membri della famiglia Fitzgerald.
Esiste anche la Narrazione in seconda persona, per la verità molto rara in narrativa, che cerca di nascondere e oscurare l’io narrativo, rivolgendosi direttamente al lettore, facendolo diventare il protagonista della narrazione.
Spesso, quando un autore si accinge a scrivere il proprio romanzo è portato a scegliere e usare in modo spontaneo il tipo di Narratore che gli è più congeniale, ed è sicuramente la cosa migliore da fare per un esordiente. Tenere le fila del punto di vista narrativo non è né banale né scontato, un improvviso cambio dell’io narrante è la prima cosa che salta all’occhio del lettore. Quindi fate molta attenzione se volete sperimentare nuovi punti di vista!

venerdì 25 maggio 2018

Fantasy: un mondo di sottogeneri

Oggigiorno, il genere fantasy si è scisso in una miriade di sottogeneri che a loro volta subiscono diverse contaminazioni che danno origine ad altri sottogeneri. 
Dal "Signore degli anelli" deriva l'high fantasy, che ha e ha avuto molti validi esponenti quali Terry Brooks, Robert Jordan, Brandon Sanderson, Robin Hobb... 
Esiste poi una nutritissima categoria di fantasy per ragazzi, il cui esempio più fulgido è probabilmente J.K. Rowling con "Harry Potter" ma che in realtà nasce, come abbiamo già detto l'altra volta, in parte da "La storia Infinita" di Michael Ende, ma in parte anche dalla serie de "Le Cronache di Narnia" di Lewis, romanzi degli anni '50 che avevano in sé dei chiarissimi richiami all'ideologia cristiana (uno su tutti, il leone Aslan che risorge dalla morte). 
Un altro autore importante, venuto prima di Tolkien, è Robert E. Howard. Morto giovanissimo, grazie ai suoi cicli di racconti pubblicati negli anni '30 su Weird Tales (sopratutto Conan il Barbaro), viene considerato il padre del moderno heroic fantasy o, per meglio dire, dello Sword&Sorcery. I protagonisti del genere sono eroi muscolosi, o più spesso antieroi, che combattono forze del male quali streghe, demoni e spiriti malvagi. 
 Dallo Sword&Sorcery e in contrapposizione all'high fantasy è nato il Low Fantasy, che a sua volta ha dato origine al Grimdark. Il Low Fantasy ha la caratteristica di svolgersi in un mondo inventato nel quale la magia non ha per nulla rilevanza, o comunque una rilevanza molto scarsa per l'evolversi della vicenda. Il Grimdark è un sottogenere che si sofferma sugli aspetti più realistici e brutali dell'umanità, di solito impegnata in guerre di stampo medievaleggiante: sangue e arti mozzati al limite dello splatter, ma anche sesso e bisogni primordiali. 
Il più noto esponente del genere oggigiorno è George R.R. Martin con la saga delle "Cronache del ghiaccio e del fuoco", ma altri nomi importanti sono, per esempio, Joe Abercrombie e Richard K. Morgan. 
 Dalla contaminazione con la fantascienza e il noir è poi nato l'Urban Fantasy, un tipo di fantasy che si svolge nelle nostre moderne città inserendo nei contesti urbani creature fantastiche quali vampiri, licantropi, angeli, streghe... 
Uno dei primissimi esempi è la serie TV "Buffy the Vampire Slayer", che narrava delle vicende di una cacciatrice di vampiri teenager che frequentava una high school americana. Da qui in poi è nata una fiorente letteratura che si rivolge in parte ai ragazzi, in parte agli adulti, e che ha subito anche diverse contaminazioni con il genere romance (tanto da dare vita a un altro sottogenere, il paranormal romance, di cui ci occuperemo nei post dedicati ai romanzi rosa). 
Infine, facciamo un piccolo accenno al NewWeird, un genere nato negli anni '90 che si caratterizza per la presenza di elementi fantasy come la magia mischiati con altri fantascientifici e horror ma, sopratutto, per l'abbandonarsi al bizzarro con creature e ambientazioni strane e originali. 
Il punto di partenza di questo genere, che comunque ha poi subito un'evoluzione, sono gli autori "weird" quali Lovercraft e Clark Aston Smith, i quali puntavano maggiormente su contaminazioni fantasy e horror e non avevano finalità sociali come invece il contenuto dei romanzi NewWeird
Da Lovercraft, Poe e Clark Aston Smith partiremo nel prossimo post per trattare il genere horror.

venerdì 18 maggio 2018

Due alberelli al Salone di Torino

Martedì siamo rientrate dal Salone del Libro di Torino e abbiamo riportato un bagaglio carico di diverse sensazioni. 
Da un lato, il Salone è sempre una festa. Come ci ha detto uno dei nostri amici con cui abbiamo avuto l’occasione di parlare in questi giorni, la cosa davvero importante è che la gente legga e, a giudicare dal grandissimo afflusso di pubblico, pare che di lettori ce ne siano molti. 
Il Salone fa sempre numeri da record, tanto è vero che sabato si è addirittura resa necessaria la chiusura dei tornelli. 
Confermiamo che di gente ce n’era una marea. Ci voleva mezz’ora solo per riuscire a bere un caffè e infilarsi in una delle sale incontri era praticamente impossibile a meno di avere un pass stampa. 
D’altro canto, ci duole aver notato una certa disorganizzazione logistica. Nessun posto dove sedersi, poche indicazioni, nessun wi-fi se non in sala stampa… 
Si tratta forse di piccolezze, ma sommate tutte assieme hanno reso più difficoltosa la fruizione del Salone. E per fortuna noi avevamo il pass, perciò ci siamo evitate il disagio delle file chilometriche di fronte alle biglietterie, aggravato (ma questo tutto sommato è giusto) dai controlli di sicurezza. 
Quello che davvero ci ha lasciate perplesse (e non solo a noi) è stata la disposizione degli stand. Dopo aver saltato la scorsa edizione, quest’anno i grandi editori sono tornati a Torino. La cosa è andata tutta a discapito dei piccoli editori indipendenti, che si sono visti relegare in angoli nascosti dietro alle colonne o, addirittura, in una tensostruttura esterna e mal segnalata che è stata chiamata “Padiglione 4”. 
In caso la situazione si ripeta il prossimo anno, la Regione Piemonte ha detto che rinuncerà al suo stand per fare largo agli altri, ma forse si potrebbe risolvere la cosa semplicemente riducendo lo spazio concesso a qualcuno o, magari, adibendo il nuovo padiglione 4 a tutte quelle aree d’incontro che hanno sottratto spazio gli altri padiglioni. 
Al di là di queste piccole polemiche (che pure vogliono essere costruttive) siamo state contente di conoscere nuovi editori indipendenti. Anche se a un occhio poco attento tutto può sembrare fermo, l’offerta culturale del nostro Paese è sempre più varia e articolata e per tanti editori fuffa (che, dobbiamo ammettere, esistono) ce ne sono altri che svolgono con competenza e passione il loro mestiere. 
Il Salone del Libro di Torino si è presentato ancora una volta come il Gotha dell’editoria italiana; l’importante è ricordare che i migliori non sono solo quelli con lo stand più bello, grande e sfavillante, ma anche quelli che nonostante il loro modesto banchetto sono in grado di produrre libri di alta qualità e valore.